
Alternanza scuola-lavoro e formazione professionale: riflessioni e proposte
La morte sul lavoro di Lorenzo Parelli ha riacceso prepotentemente e giustamente i riflettori sull’alternanza scuola-lavoro e, in generale, sui dispositivi di formazione al lavoro delle nuove generazioni, tra cui stage e tirocini, che nella maggior parte dei casi rappresentano lavoro gratuito a disposizione delle imprese. A scanso di equivoci, Lorenzo Parelli era iscritto al IV anno di un percorso di formazione duale nel settore della meccanica industriale di un centro di formazione professionale di Bearzi (UD) e stava frequentando l’ultimo giorno di stage in un capannone industriale di proprietà della Burimec, nella provincia friulana, quando è stato ucciso da una putrella. Per quanto non si tratti formalmente di un’esperienza di alternanza scuola-lavoro, o meglio, di un Percorso per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO, attuale denominazione introdotta dal Decreto Ministeriale 774 del 4 settembre 2019), ciò non toglie che sia sempre di più indispensabile aprire una riflessione collettiva su come viene gestita la transizione tra scuola e lavoro dellз ragazzз. Nell’estrema difficoltà e delicatezza con cui è necessario affrontare questa questione, dovremmo fare lo sforzo di non cadere immediatamente in polarizzazioni semplicistiche, dando centralità politica e culturale (e non manganellate) a bisogni, aspirazioni e desideri di futuro delle nuove generazioni.
Dobbiamo innanzitutto fare una premessa sul ruolo della formazione professionale: normati dalle singole regioni, i percorsi di formazione professionale dovrebbero trasmettere quelle competenze necessarie per accedere a una qualifica e svolgere lavori e professioni nel settore meccanico o in quello elettronico, nella ristorazione oppure nei servizi alla persona, per fare un elenco parzialissimo degli ambiti produttivi di maggiore riferimento. Insegna la teoria ma soprattutto la pratica di diverse professioni, il funzionamento di un tornio, come costruire un impianto elettrico o eseguire una ceretta: il forte orientamento alla pratica si costruisce tra aula e azienda, con periodi di stage programmati ogni anno. La formazione professionale accoglie soprattutto — ma senza generalizzare — quellз ragazzз etichettatз come ultimз che devono “ringraziare per l’opportunità di imparare un mestiere”: ragazzз incasinatз e spintз fuori dai percorsi di istruzione, che già alle elementari fanno “fatica a stare sedutз al banco” o “rallentano il programma”. Ragazzз che magari semplicemente “non hanno voglia di studiare”. Forse, però, non hanno voglia di studiare nella scuola così come funziona adesso, con addosso la costante sensazione che le uniche opzioni disponibili per il futuro siano tra lavoro di ripiego e sperimentarsi nell’economia informale. L’habitus non fa il monaco, ma sicuramente conta. Ragazzз che devono trovare un lavoro il prima possibile per supportare le famiglie, ragazzз che vogliono spaccare e fare i soldi, perché sembra l’unico modo per smettere di sentirsi un peso o per cominciare a contare.
Proviamo ad andare per punti:
partiamo dalla premessa che ogni esperienza di istruzione e formazione dovrebbe innanzitutto avere il compito di supportare la crescita di persone che possano essere protagoniste nel costruire la loro vita e quella della collettività in cui vivono e non solo di consentire l’accesso al mondo del lavoro;
allo stesso tempo non possiamo permetterci di essere ingenui sui fattori strutturali che incidono sulla rappresentazione e la costruzione del futuro e di come sia necessario combatterli: disuguaglianze socio-economiche; bisogni congiunturali del mercato; divisione sessuale del lavoro e aspettative di genere nel contesto di una società ancora patriarcale; possibilità di accesso alla cittadinanza. Altrimenti continuiamo a individualizzare successo e fallimento, dando corda alla retorica stantia del “se vuoi, puoi” come strumento di organizzazione sociale;
se i PCTO devono essere ad accesso volontario e retribuiti, sicuramente stage e tirocini promossi all’interno della formazione professionale devono essere pagati, per remunerare almeno parzialmente il valore creato da ragazze e ragazzi e per spezzare quell’idea che il lavoro te lo devi guadagnare: in verità vorremmo guadagnare con il lavoro;
ogni esperienza di transizione tra formazione e lavoro deve essere progettata con cura tra sistema della formazione, imprese, enti pubblici e realtà della formazione non formale (se coinvolti): negli obiettivi formativi e nel metodo didattico; nella definizione di contenuti e pratiche; nella selezione di formatorз e tutor. Allo stesso tempo è necessario lasciare spazio alla co-progettazione con le/i partecipanti, alle loro richieste di influire sui processi e alle loro domande di rottura, per fare in modo che queste esperienze non siano soltanto occasioni di “addestramento” ma opportunità per sperimentare la propria capacità di incidere sul modo in cui le cose sono pensate e realizzate;
le esperienze di transizione e orientamento devono sicuramente essere legate al processo produttivo, in modo che l’occasione di sperimentarsi con una professione sia realistica, ma devono essere sganciate dalle esigenze di produttività, da ritmi e compiti che richiedono di essere già integrati con quel lavoro. Se questo rappresenta sicuramente un costo per l’azienda (spesso ovviato affidando mansioni poco qualificate e interessanti, come fare le fotocopie o portare i caffè, che non interrompono il ritmo della produzione) è necessario quindi investire risorse, economiche, formative e organizzative. Chi le mette? Le aziende stesse, costruendo con enti locali e organizzazioni formative strumenti premianti per chi investe in formazione e lavoro di qualità;
mettiamo in campo sistemi di valutazione delle aziende, che verifichino le condizioni di sicurezza in cui si svolgono stage e tirocini, il rispetto degli orari e delle mansioni, l’attivazione di relazioni veramente formative. Non tutte le aziende devono e possono ospitare percorsi di transizione: ci devono essere requisiti negoziati e regolati pubblicamente, con le diverse parti sociali coinvolte;
la formazione per la sicurezza sul lavoro dovrebbe essere il punto di partenza di ogni esperienza di questo tipo, ma non basta. Per quanto imprescindibile, non è sufficiente imparare a stare correttamente sulla linea di produzione, capire i rischi di prodotti e strumenti con cui si lavora. E’ necessario infatti ricominciare a parlare del senso del lavoro: di diritti, ritmi e orari, funzionamento dei processi produttivi, etica del lavoro, rischio, impatto ambientale e sociale, stipendi, benessere, welfare e trasformazioni globali, garantendo una pluralità di voci, partendo da quella delle nuove generazioni. La conoscenza della propria condizione — sociale, culturale, lavorativa e politica — è il punto di partenza per provare a trasformarla;
le esperienze di transizione devono rappresentare inoltre l’occasione per confrontarsi con modelli organizzativi alternativi, che mettano al centro cooperazione e mutualità, tra chi lavora e tra impresa e società. Le competenze trasversali (oggetto di numerose speculazioni polarizzanti) ricoprono un ruolo centrale: creatività, intraprendenza, riconoscimento e relazione con i conflitti, negoziazione, responsabilità collettiva devono essere giocate e sperimentate nei percorsi formativi.
Se vogliamo garantire a tuttз — e in particolare a chi sta ai margini della ricchezza e del potere sociale — la possibilità di conoscere, capire e creare non dobbiamo demonizzare la formazione tecnica e professionale, perché orientata all’apprendimento di un mestiere o di una professione, come se fosse soltanto fucina di sfruttamento. Diversi enti di formazione professionale andrebbero presi a modello per la capacità di sperimentare e includere e perché, nonostante tutto, rappresentano ancora uno spazio di autonomia (dal mercato) e di cura (del passaggio dalla formazione al lavoro).
Servono risorse, spazi e tempi adeguati, innovazioni didattiche e organizzative, pazienza e attenzione per trasformare sperimentazioni virtuose in un cambiamento sistemico della formazione professionale e farne il punto di partenza per la trasmissione anche di quel sapere sociale necessario per costruire un futuro diverso rispetto a quello cui tantз ragazzз sono destinatз. Un sapere che è competenza tecnica e consapevolezza dei processi di trasformazione globale del lavoro, delle pratiche di subordinazione e di autodeterminazione. Non trattiamo con classismo e sufficienza la formazione tecnica e professionale, ma costruiamo percorsi di formazione superiore o istruzione universitaria che non diano per scontato che tuttз abbiano frequentato un liceo. Ancora di più, non trattiamo le ragazze e i ragazzi che frequentano questi percorsi come vittime da salvare o ultimз della classe cui insegnare il minimo necessario, purché lavorino, purché campino. E’ difficilissimo e non ci sono soluzioni preconfezionate, ma sperimentiamo soprattutto con loro pratiche di costruzione e trasmissione anche di quei saperi considerati complessi.
Proviamo a capire come dar loro maggiore potere, perché pretendiamo da loro che inventino il futuro.